Nessun dolore è irreale: il dolore esisterebbe anche se il mondo non esistesse. Quand'anche fosse dimostrato che esso non è di alcuna utilità, potremmo ancora trovargliene una: quella di proiettare una certa sostanza nelle finzioni che ci circondano. Senza il dolore, saremmo tutti dei fantocci, non ci sarebbe più alcun contenuto dove che sia; con la sua sola presenza, esso trasfigura qualsiasi cosa, perfino un concetto. Tutto ciò che tocca è promosso al rango di ricordo; lascia traccia nella memoria, che dal piacere è solo sfiorata: un uomo che ha sofferto è un uomo segnato (come si dice di un debosciato che è segnato - e a ragione, visto che la dissolutezza è sofferenza). Il dolore dà coerenza alle nostre sensazioni e unità al nostro io, e resta, una volta abolite le nostre certezze, la sola speranza di sfuggire al naufragio metafisico. Bisogna ora spingerci oltre e, conferendogli uno statuto impersonale, sostenere, con il buddhismo, che solo la sofferenza esiste, e che non esistono sofferenti? Se il dolore possiede il privilegio di sussistere per virtù propria e il «sé» si riduce a un'illusione, ci si chiede allora chi soffra e quale senso possa mai avere questo svolgimento meccanico al quale il dolore è ridotto. Si direbbe che il buddhismo vedA (O VEDE?) dappertutto il dolore solo per svalutarlo meglio. Ma noi, anche quando ammettiamo che esiste indipendentemente da noi, non possiamo immaginarci senza di esso né separarlo da noi stessi, dal nostro essere, di cui è la sostanza, anzi la causa. Come concepire una sensazione in quanto tale, senza il supporto dell'«io», come rappresentarci una sofferenza che non sia «nostra»? Soffrire significa essere totalmente sé, significa accedere a uno stato di non coincidenza con il mondo, giacché la sofferenza è generatrice di intervalli; e quando ci attanaglia, non ci identifichiamo più con nulla, nemmeno con essa; è allora che, doppiamente coscienti, noi vegliamo sulle nostre veglie. Oltre ai mali che subiamo, che si abbattono su di noi e ai quali più o meno ci adattiamo, ve ne sono altri che ci auguriamo sia per istinto sia per calcolo: una sete insistente li invoca, come se avessimo paura che, cessando di soffrire, non rimarrebbe più nulla a cui aggrapparci. Noi abbiamo bisogno di un elemento rassicurante, attendiamo che ci venga fornita la prova che poggiamo sul solido, che non siamo in pieno vaneggiamento. Il dolore, quale che sia, svolge questo ruolo e, quando lo abbiamo sottomano, sappiamo con certezza che qualcosa esiste.
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A DESESTIGMATIZAçàO DA DOR. E, ORA, OUTRA VEZ, O CILìCIO. FUNDAMENTADO. POR ùLTIMO, A VIGìLIA - ESTA MINHA, LITERAL: SEM TODO UM LIRISMO FILOSOFADO, SEM AS METàFORAS. ENFIM, MARTìRIO PESSOAL ESCANTEADO, QUE, QUANDO AFOGAR OS PéS NA DOR TREMENDA QUE PREFACIA TODOS ESTES DIAS EM QUE ME TENHO PAJEADO, SEI QUE GASTAREI HORAS EM ESTADO DE TRANSE DESPERTO, COM OS OLHOS BAIXOS E OS DITOS LAPSOS DE MEMòRIA, PASSO-ME AO TEXTO.
A DOR, EM CIORAN, é O Pé NA REALIDADE. A DOR-REFERéNCIA. INDISPENSàVEL A UM SENTIDO NA VIDA. A SIMBIOSE DOR/DORIDO, CONTRAPOSTA à AUTONOMIA IMAGINADA PELO BUSDISMO. CONTUDO, SE NESTE PRECISO MOMENTO TIVESSE EU DE CAMINHAR PARA UMA DAS PONTAS DA CORDA, ABRAçANDO CAUSA, FATALMENTE ME RECONHECERIA BUDISTA. ENXERGO A DOR COMO ENTIDADE INABALàVEL. NàO CRESCE E NEM MURCHA EM RAZàO DE SECTàRIOS. VIVE SEM MIM, CONQUANTO A RECìPROCA NàO SE APROXIME, NEM DE RELANCE, DA VERDADE.
DJ ME DISSE, ALIàS - E TENDO-O POR ESTRIBO, SINTO-ME EM PAZ COM QUALQUER JULGAMENTO, AINDA QUE SE ME APONTEM FOICES -, QUE O TORPOR QUE MUITAS VEZES EU QUIS é, NA REALIDADE, UMA RENùNCIA TRISTìSSIMA AO QUE ME FAZ BOA. AO QUE ME ESTOFA, QUE ME ESTICA A PELE, QUE ME VICEJA. MESMO NA VIGéNCIA DO DESTERRO.
E PORQUE MAL E MAL ME ESTICO Hà QUASE TRéS DIAS, ENCERRO AQUI O QUE INICIEI NO SAGRADO HORàRIO DO SONO. QUIçà NOS TREZE (A QUE FIZ MENçàO, SEMANA PASSADA), ARRANJE UM DESFECHO CABIDO.
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CI SIAMO QUATTRO. E LEGGIAMO ASSOLUTAMENTE TUTTO. DOPO TRE O QUATTRO MESI. E CINQUE O SEI BICCHIERI. DI VELENO.